Clinica Universidad de Navarra
Il 27 gennaio inizio il mio tirocinio spagnolo nell’Unità di Medicina Palliativa diretta dal Prof. Carlos Centeno Cortés presso la Clinica Universidad de Navarra a Pamplona, comunemente chiamata CUN. Avevo già conosciuto il prof. Centeno a novembre, in occasione delle lezioni del Master a Bentivoglio. La sua accoglienza è molto spagnola, calorosa come quella della sua équipe composta dal Dr. Antonio Noguera Tejedor, dalla Dott.ssa Rocio Roj, dalla psicologa Marina Martinez e dall’infermiera Ana Larumbe. Qui ci si presenta dicendo “encantado/a” e si danno due baci sulla guancia, non importa che tu sia un professore universitario o uno studente, ti abbracciano e ti baciano. In questi mesi frequentano le attività della Medicina Palliativa anche Blanca Lizarraga (infermiera specializzata in ambito oncologico), Cristina Vidal (specializzanda in psicologia clinica) e la fellow Beatriz Pelaez. Beatriz è di origini spagnole, si è specializzata in oncologia a San Sebastian ed ora lavora come oncologa a Valladolid. A gennaio 2020 ha iniziato la sua fellowship di 6 mesi in cure palliative al CUN, con l’obiettivo di formarsi in questo ambito e creare successivamente un servizio di medicina palliativa nel suo ospedale.
È una ragazza molto carina, è stato un piacevole incontro, mi ha fatto compagnia nel corso delle due settimane anche al di fuori dell’orario di lavoro. Ci siamo scambiate idee e materiale e certamente resteremo in contatto in futuro. Il CUN si trova al di fuori della parte storica di Pamplona. Il campus universitario si trova a pochi metri dalla clinica ed è veramente molto bello, le strutture sono molto curate e immerse in un rilassante parco. Ci sono collegi per gli studenti (rigorosamente divisi tra maschi e femmine), edifici adibiti esclusivamente alla ricerca, un imponente e moderno edificio per la biblioteca ed il museo dell’università. La clinica è privata ed è estremamente curata. I pazienti sono ricoverati in stanze singole e il personale sanitario è decisamente numeroso. Il mio primo pensiero entrata nella clinica è stato rivolto al dress code dei professionisti: è un ambiente estremamente formale, una realtà molto diversa da quella cui sono abituata. L’influenza cattolica è molto presente, con quadri religiosi e crocifissi in tutti gli studi medici e in tutte le camere dei pazienti, comprese le stanze della terapia intensiva e della rianimazione. La maggior parte dei professionisti ha un simbolo religioso con sé: il rosario al collo o all’anulare, un bracciale con una immagine religiosa o una croce tatuata sulla pelle. Mentirei nel dire che tutto ciò non è stato “forte” per me.
Non sono praticante, ho fatto tutti i miei studi in scuole pubbliche e questa realtà così fortemente religiosa soprattutto nell’affrontare la malattia (mi riferisco ai dialoghi in merito all’accettazione e al percorso di malattia) per me è stata un’esperienza nuova e un po’ “estrema”. D’altra parte, è stato interessante vedere come la religione possa influenzare così tanto il percorso di malattia e la cura. Naturalmente nella mia esperienza in Italia ho avuto modo di interagire con pazienti e famiglie credenti ma mai a questo livello, mai così tanto affidati alla fede e fortemente legati alla comunità del credo religioso. Ho riflettuto molto durante queste settimane, credo di non aver mai avuto prima spunti di riflessione così forti in tal senso. Penso che da adesso in poi, quando avrò davanti a me un paziente che mi riporta la sua “fede” come elemento importante per affrontare la sua malattia, considererò questo dato con occhi diversi, conscia di cosa possa realmente rappresentare una comunità religiosa e quanto possa essere importante (oserei direi totalizzante) la fede nella sua vita, qualunque fede sia. Riflessioni generali a parte, veniamo al resoconto della mia esperienza.
L’attività lavorativa inizia alle 9 circa del mattino. L’équipe di medicina palliativa è suddivisa in due piccoli gruppi: chi si occupa della consulta (consulenze per pazienti ambulatoriali) e chi della planta (consulenze per pazienti ricoverati). Gli studi e gli ambulatori di medicina palliativa sono all’8° piano del CUN, dove si trova anche parte della degenza dell’oncologia medica e dove ci sono gli ambulatori del day hospital oncologico. Le attività dei palliativisti e degli oncologi sono molto amalgamate tra di loro: non ci sono divisioni nette tra gli ambulatori dove visitano gli oncologi o dove visita l’équipe del Prof. Centeno, ma è un’unica area con diversi ambulatori che vengono condivisi. Anche i pazienti che non sono in carico all’équipe di cure palliative sono soliti vedere i palliativisti, quindi se un giorno verranno presi in carico dalle cure palliative non sarà uno “shock”, cosa che invece spesso accade nelle nostre realtà dove i servizi sono strutturalmente divisi. È tutto molto “fluido”, una ottima organizzazione da questo punto di vista. La medicina palliativa segue prevalentemente pazienti oncologici ma è possibile che l’équipe venga attivata anche per patologie croniche degenerative (renali o neurologiche).
Ogni mattina il gruppo si riunisce brevemente per fare il punto della situazione: quali pazienti sono in programma in ambulatorio e se ci sono novità sulla degenza dei pazienti in carico ricoverati. Il lunedì e mercoledì la riunione mattutina viene fatta in presenza degli oncologi, per avere un confronto sui pazienti che si seguono in comune. Ho notato una forte e ricercata collaborazione da parte degli oncologi nei confronti dell’équipe di medicina palliativa, che mi ha piacevolmente stupita. Probabilmente la disposizione degli ambulatori e degli studi medici, così amalgamati tra di loro, facilita la convivenza professionale quotidiana ed il confronto costante. Tutti i giovedì mattina si tiene un breve Journal Club all’interno dell’équipe. Agli eventuali “ospiti” (come nel mio caso) viene chiesto di presentare il proprio background e la propria esperienza professionale oppure si condividono articoli scientifici, pubblicazioni recenti o letture interessanti. Ad esempio, il mio primo giovedì di tirocinio ho assistito alla presentazione del Dott. Noguera di un suo studio relativo all’insorgenza del delirium, condotto in collaborazione con l’Università di Bologna, mentre durante il secondo giovedì mi è stato chiesto di raccontare la mia formazione universitaria e l’esperienza in ambito clinico e di ricerca. Ho trascorso la mia prima settimana con il Dr. Noguera nel gruppo della “consulta”.
Le visite ambulatoriali sono state prevalentemente rivolte a pazienti affetti da patologia oncologica; ho avuto, però, l’occasione di vedere una paziente affetta da patologia neurologica (afasia primaria progressiva) inviata dal collega neurologo per la gestione del dolore e del tono dell’umore ed un paziente in dialisi con insufficienza renale cronica. Vedere questa paziente è stato particolarmente interessante perché si è trattato dell’unico caso in cui il palliativista ha dovuto affiancare la famiglia esclusivamente nella gestione della componente sociale. I pazienti che accedono alla clinica li definirei “selezionati”: tutti con una buona rete familiare e anche economica. Queste caratteristiche influiscono naturalmente sull’attività dell’équipe, alleggerendo in parte il lavoro poiché l’elemento sociale non rappresenta quasi mai un problema da affrontare. La mia esperienza in Italia è ben diversa, perché al contrario le difficoltà sociali (principalmente economiche e di mancanza di caregiver) sono molto spesso presenti e influiscono inevitabilmente sul percorso di cura.
La prima settimana è stata caratterizzata dalla presenza di un altro ospite, il Dr. Günther Spahn, un collega tedesco invitato dal CUN per tenere una conferenza sulla medicina integrativa in oncologia. La conferenza è stata organizzata per presentare una fellowship in cure palliative, finanziata dalla famiglia di una giovane paziente deceduta per patologia oncologica e seguita durante la malattia sia in clinica a Pamplona che dal Dr. Spahn. Era presente tutta la famiglia della donna, compreso il marito, professore universitario a Londra. I giorni seguenti alla conferenza, il Dr. Spahn ha partecipato all’attività clinica dell’équipe e giovedì 30/01 il Prof. Centeno ci ha condotti in un tour del campus universitario, spiegandoci l’organizzazione dell’università e portandoci a conoscere la parte del gruppo che si occupa di ricerca.
Ho avuto modo di conoscere il famoso Research Team ATLAS, che ha tenuto una breve presentazione dei loro lavori. Concluso l’incontro, il Prof. ci ha inaspettatamente offerto un pranzo tipico presso il bel ristorante del campus (http://restaurantemun.com). Per la prima volta in vita mia ho quindi pranzato con tre professori (Centeno, Spahn e il prof. di Londra, marito della paziente) per fortuna c’era Beatriz con me ad “alleggerire” il tavolo. In occasione del pranzo, il prof. Centeno ci ha raccontato alcune formazioni “bizzarre” che tiene con gli studenti del corso di laurea in medicina e in particolare come abbia introdotto un corso che si svolge nel museo del campus: partendo dall’analisi delle diverse emozioni che l’arte trasmette agli studenti si arriva a riflettere sulle preferenze soggettive dei pazienti nell’intraprendere l’advance care planning della cura. Da questa esperienza è nato da un paio d’anni un workshop sulla compassione nella cura. È stato anche pubblicato un articolo in merito al corso svolto nel museo: ncbi
Ho trascorso la seconda settimana di tirocinio con la dott.ssa Rocjio nel gruppo della “planta” che segue giorno per giorno i pazienti ricoverati nei diversi reparti del CUN (oncologia, terapia intensiva…). Durante questa settimana sono stati circa 20 i pazienti in carico, suddivisi appunto nei vari reparti e tutti affetti da patologia oncologica. Parecchie persone si recano al CUN per chiedere una second opinion in merito ai trattamenti, spesso quando altri centri hanno dichiarato il paziente off therapy oppure quando si tratta di pazienti provenienti da altri Paesi. Tra questi, abbiamo visto una ragazza proveniente da una comunità cristiana del Congo, arrivata al CUN per curare un tumore ovarico. I pazienti visti in questi giorni sono in fase avanzata di malattia, con una prognosi di pochi giorni o settimane cui però, nella maggior parte dei casi, sono ancora proposti trattamenti.
In particolare, ricordo due ragazzi – entrambi miei coetanei – sottoposti a trattamenti chirurgici palliativi recenti per trattare complicazioni dovute alle ferite chirurgiche e con quadri veramente impressionanti da vedere. In linea generale, l’intervento dell’equipe di cure palliative è prevalentemente sui sintomi fisici dei pazienti; la psicologa viene attivata solo c’è distress psicologico. Non ho invece assistito a grandi discorsi per quanto riguarda la spiritualità della persona durante la malattia. Le volte che ho sentito chiedere “come sta il tuo animo, il tuo spirito” la risposta è sempre stata “prego” oppure “mi conforta parlare con il prete”. Anche qui, una realtà un po’ diversa e selezionata rispetto a quella cui sono normalmente abituata. Il paziente protagonista della settimana è stato un ragazzo di 40 anni, inglese, con un tumore del retto avanzato e una situazione di recidiva locale molto pesante. Si tratta di una persona che ha fatto uso importante di sostanze, con alcune difficoltà psicologiche. È arrivato a Pamplona con la moglie, molto provata dal cambio caratteriale del marito, lasciando due bimbi piccoli a Londra dai nonni. La gestione del dolore e dei numerosi attacchi di panico/astinenza da fumo hanno messo a dura prova sia l’équipe di cure palliative che il personale infermieristico del reparto dove era ricoverato; le infermiere del reparto e i medici di guardia chiamavano più volte al giorno l’équipe di cure palliative per chiedere come gestire la sua agitazione psico-motoria.
Numerosi sono stati gli interventi delle infermiere, dei medici e della psicologa dell’équipe del Prof. Centeno sugli altri professionisti, per cercare di migliorare la degenza del paziente e realizzare un lavoro di gruppo ben strutturato. Un caso di “dolore globale” molto interessante, insomma. Durante il tirocinio con la Dott.ssa Rocjio ho avuto anche occasione di vedere due pazienti nell’ambulatorio di nefrologia: proprio in questa seconda settimana è infatti iniziato un progetto pilota di cure palliative in nefrologia, rivolto a pazienti anziani con una insufficienza renale prossima alla dialisi. Questa tipologia di pazienti (anziani, fragili, comorbidi) ottiene la migliore qualità di vita non iniziando la dialisi, che è un trattamento invasivo e pesante.
Il progetto prevede che il palliativista e il nefrologo seguano insieme il paziente nel tempo, ne gestiscano al meglio i sintomi e lo aiutino a prendere decisioni difficili ma ben informate, come quella di iniziare o meno il trattamento dialitico. È stato interessante assistere all’inizio di questo progetto; la dott.ssa Rojo mi ha promesso che mi terrà aggiornata in merito. Casualmente, l’ultimo paziente che ho avuto modo di vedere il venerdì pomeriggio è stato il Signor Fermin (come il tanto famoso San Fermin di Pamplona). Fermin è un signore spagnolo che ho conosciuto all’inizio della mia settimana in “planta”, con una malattia molto avanzata. Nei giorni i suoi occhi sono diventati sempre più gialli e il fiato sempre più corto. Quando sono stata presentata come una dottoressa italiana ha iniziato a sfoderare il suo italiano e a raccontarmi dei suoi viaggi in Italia, da appassionato di arte e di cibo.
L’ultimo pomeriggio ci ha detto che era tranquillo, che aveva fatto due passi in stanza seppur con grande fatica e che al mattino gli era stata data la “uncion de los enfermos”. Mi chiede come si dice in italiano. “Unzione degli infermi”. “Uguale!” gli rispondo. “Allora hai capito”, mi ha sorriso. Gli dico che la domenica torno in Italia e che quindi lunedì non ci vedremo. Mi prende la mano tra le sue e mi dice “Non ci vediamo più allora..” “No perché torno in Italia, devo iniziare a lavorare a Bologna!” Restiamo a fissarci per un po’ negli occhi, che sono veramente tanto gialli. Non ci vedremo più, non solo perché io torno in Italia.. lo sappiamo entrambi. Ce lo diciamo, ma senza parole. Mentre lo guardo mi immagino gli stessi occhi mentre mangia una gustosa pizza a Napoli o mentre rimane incantato dall’oro dei mosaici di Ravenna (è la sua città italiana preferita). “Arrivederci, buon viaggio e buona fortuna per il tuo lavoro” mi dice. Mentre scrivo queste frasi dall’aeroporto di Madrid, durante il viaggio di ritorno, mi chiedo se in questo week-end sia “partito” anche lui. Domani scriverò un messaggio a Beatriz per avere aggiornamenti. Non so se ha ragione Fermin, se ci rivedremo in un aldilà in cui lui crede tanto. Forse. Nel caso riprenderemo a parlare del cibo e dell’arte italiana. La cosa che so sicuramente è che la prossima pizza che mangerò, la mangerò pensando a lui. Ciao Fermin. Ciao Pamplona.
Testi di Eleonora Taberna
Foto di ©Eleonora Taberna
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